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Channel: Il Giornale - Antonio Lodetti
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Trucido, ma segnò un'epoca. Vita ed eccessi del Monnezza

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In Italia negli anni '70 andavano di moda i film western e quelli sui banditi, e lui voleva entrare a far parte di quel giro, dove uno poteva assaltare banche e diligenze e veniva persino pagato per farlo. Ma c'era un problema; i produttori lo consideravano un attore impegnato e dicevano: «Ma chi ci crede a Tomas Milian che fa il cowboy o il cattivo?».

C'è un Tomas Milian - pre Monnezza, pre sganassoni e parolacce - che molti non conoscono ma che emerge dalle pagine della sua autobiografia, scritta con Manlio Gomarasca, Monnezza amore mio (Rizzoli, pagg. 352, euro 15) . .. Quello che se la dà a gambe da Cuba il 5 gennaio 1956, undici mesi prima che arrivasse Fidel Castro, fuggendo da una «non vita fatta di feste e fidanzate». Se ne va a Miami, senza sapere una parola d'inglese, puntando l'Actor's Studio di New York, dove con la sua sfrontatezza conquistò Lee Strasberg e Elia Kazan (seduto fianco a fianco a Marilyn Monroe) e entra nel giro del cinema intellettuale e della commedia off Broadway, applaudito da Jean Cocteau e da Gian Carlo Menotti, che lo porta in Italia al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Bello, strafottente e senza peli sulla lingua, pronto a concedersi alle donne (tante) ma anche agli uomini (nel libro racconta con la solita ironia le sue fellatio) conquista la borghesia romana, anche se l'anima del Monnezza emerge da alcuni suoi comportamenti... Ad esempio, ospite di un ricco conoscente, viene scacciato perché getta nel camino, per scaldarsi, due preziose sedie del '700; o si presenta per «colazione» da una principessa alle nove del mattino con una scatola di brioche.

Nella scuderia di Franco Cristaldi è attore apprezzato e seguito, ma il contratto con il produttore scade, e finiscono anche i soldi, e quindi arrivano le sirene dei western e dei poliziotteschi di cui si parlava all'inizio. Nel 1966 mise in giro la voce che avrebbe accettato un western per pochissimi soldi ed eccolo in Spagna a girare The Bounty Killer, poi seguito da pellicole come Tepepa con Orson Welles, Vamos a matar companeros di Corbucci e la serie di Provvidenza (un film fu girato da Claude Chabrol).

Dopo il successo di Milano odia: la polizia non può sparare (1974) di Umberto Lenzi, Milian interpreta Roma a mano armata (1976), sempre di Lenzi, dove recita il ruolo del feroce bandito detto Il Gobbo. C'è la scena in cui il bandito si ferma a fare benzina ma, poiché non ha soldi, fugge sgommando davanti al benzinaio . Qualcosa non lo convince così si inventa sui due piedi una battuta. Chiede al benzinaio: «Come te chiami te?», «La Pira Galeazzo», recita il copione, e lui spara: «A La Pira Galeazzo, siccome nun c'ho una lira, t'attacchi ar cazzo». Lenzi teme la censura, ma Milian si apposta in sala il giorno della prima per vedere l'effetto che fa. «Quando arrivò il momento, il boato del pubblico fu strepitoso, quasi un coro da stadio. Quella battuta mi aprì la strada...». Ma il grande successo, con il suo personaggio più noto, arriva proprio nel 1976, con Il trucido e lo sbirro di Umberto Lenzi. Fu lo stesso Milian a ribattezzarlo Monnezza e a inventargli il look «soprattutto il trucco molto accentuato, soprattutto sugli occhi, con il kajal, perché con lo sguardo esprimo il 99 per cento delle mie emozioni e gli occhi, tra il nero dei capelli ricci, della barba e dei baffi, finivano per sparire. Poi passai ai vestiti. Siccome volevo che appartenesse alla classe operaia, optai per una tuta celeste con chiusura lampo, che non divideva il corpo in due come succede con pantalone, cintura e camicia. Da lì passai ai piedi e scelsi le Adidas, con le tre strisce, per scappare meglio dalla polizia».

Insomma il Monnezza faceva da corazza contro la vita e il dolore. A Cuba aveva avuto un'infanzia segnata dall'indifferenza della madre e dal suicidio del padre, a Roma riempì quel vuoto con i sentimenti di un personaggio «che era migliore di me». Questa simbiosi con er Monnezza aveva però un risvolto poco piacevole. «Stavo perdendo i capelli, mangiavo e bevevo come un dannato e mi cresceva la panza. Smisi di uscire di casa perché il mio essere Tomas non interferisse con l'essere Monnezza».

Dall'Actor's Studio ai poliziotteschi, tra coca, sesso libero, talento e battute diventate di culto: la vera storia di un cubano a Cinecittà


Paolo Conte: "Resto un artigiano ma non ho perso la voglia di sognare"

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da Rocchetta Tanaro (Asti)

Torna, popolare e al tempo stesso colto, raffinato e nel contempo ruvido, un po sabaudo un po francese... Torna Paolo Conte per raccontare le sue storie di ordinaria poesia, quelle narrate nel nuovo album Snob , quindici canzoni sospese tra vita e sogno in uscita oggi. Torna sposando i brani più intimisti (piano e voce in Donna dal profumo di caffè ) a quelli più ritmati, unendo elettronica e suoni classici nel consueto (ma sempre nuovo) melange di sonorità evocative.

Nel disco si parla di un mondo elegante e raffinato fatto di belle donne e sogni, elegante e popolare, esiste ancora questo mondo?

«Tutto ciò che scrivo esiste o almeno è bello pensare che esista».

Come mai il titolo Snob?

«Non si riferisce certo a me. Come sempre prendo il titolo di uno dei brani e lo uso come titolo. Poi bisogna tener conto che ho un pubblico internazionale e la parola snob è facilmente intelligibile. Comunque per me esistono tre tipi di persone non ordinarie: intellettuale, snob e dandy. Naturalmente la mia preferita è dandy. Lo snob è raffinato ma anche un po' parvenu».

Ultimamente aveva manifestato una certa fatica o ritrosia a scrivere canzoni, ora ben 15 nuovi brani. Da cosa è nata la scintilla?

«Non so da cosa sia nata ma certo una scintilla c'è stata e mi è scattata la voglia di scrivere testi e musica».

Come definisce la sua musica?

«Mi piace immaginarla come artigianato popolare, perché la parola arte mi fa un po' paura. L'artista deve possedere una serie di regole che lo guidino nello scrivere, altrimenti la canzone rimane un sogno».

Lei ha detto che il momento di maggior godimento è la composizione?

«È vero, è il momento vergine, la musica ti fa sentire bene. Le parole invece bisogna friggerle in padella, si sente il peso del linguaggio, invece quando si scrive musica si sta in aria, si sogna».

Un tempo diceva di ispirarsi al Duke Ellington del 1927, e oggi?

«Certo i miei anni preferiti sono gli anni Venti, ma amo anche gli anni Dieci e gli anni Quaranta, io viaggio avanti e indietro nel tempo. Sono vecchio e ancorato ad alcuni principi estetici. C'è una grossa differenza fra musica attuale e moderna. Io appartengo al moderno. L'attuale ha un senso perché viene suonato oggi ma non ha la forza rivoluzionaria del moderno».

Sono passati quarant'anni dal suo primo disco e sono cambiate tante cose nel pop, come vede la situazione oggi?

«Mi pare che tutto sia peggiorato, la produzione artistica è lo specchio dei tempi e in giro non si respira aria creativa. È scomparsa l'armonia e di conseguenza non c'è più melodia. C'è qualche bel ritmo ma è fine a se stesso».

Come vede il futuro?

«Non sono ottimista. Ho conosciuto i cantautori storici, gente come De André e Guccini, persone coltissime, molti oggi mi sembra soltanto che improvvisino canzoni».

Come si sente in questo contesto?

«Io sono sempre stato fuori dalla mischia. Ho usufruito del successo dei cantautori storici ma venendo da un altro mondo. Loro venivano dall'università e dalla voglia di fare politica, io dalla musica di consumo».

E si è sentito a suo agio?

«Non mi sento mai a mio agio ma ho trovato tanti amici e un pubblico. Al Premio Tenco la prima volta ho cantato due canzoni poi sono scappato perché avevo paura di annoiare».

Nelle sue canzoni lei sembra sempre aver voglia di altrove.

«La voglia di altrove è tipica di molti Novecentisti, raccontare storie semplici ma proiettate in un altro mondo più colorato, più attuale. Uso questa tecnica per pudore».

Che tipo di musica ascolta oggi?

«Il canale 138 di Sky di musica classica».

E i talent show?

«Li ho guardati ma preferisco la classica».

Il 25 ottobre da Legnano parte la sua nuova tournèe; tornerà a fare concerti a pieno regime?

«No, dopo questo giro di concerti mi fermerò un po', ho tanti interessi da coltivare tra cui la Settimana Enigmistica».

E la pittura?

«Devo riprendere, ora che vivo in campagna ho più spazi all'aperto, perché ho il problema dello spazio».

Suonerà i nuovi brani in concerto?

«Pochissimi. Bisogna che sedimentino prima di regalarli al pubblico».

Cosa pensa di Stefano Bollani che è pianista jazz eclettico e che fa anche la sua imitazione? Un duetto?

«È grande e ha lo spirito giusto, ma io sono un solitario, non potrei lavorare con nessuno».

A 77 anni pubblica un nuovo disco e a fine mese parte in tour. "Però ho altri interessi, ad esempio la Settimana Enigmistica..."

Bono chiede scusa ai fan per l'album targato Apple

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«La più colossale pubblicazione di un disco nella storia», l'aveva definita l'erede di Steve Jobs, Tim Cook, parlando del lancio del nuovo album degli U2 Songs of Innocence . Hanno tentato di aprire una nuova frontiera della fruizione musicale che però sembra rivelarsi un boomerang...

Tutti sanno della loro partership con Apple e dell'uscita del loro nuovo disco, scaricabile gratuitamente su iTunes per 500 milioni di persone; «un miliardo di orecchie» come ha detto Bono scherzando ma non troppo. Una gigantesca operazione commerciale (l'accordo con Apple, che ha speso 100 milioni per la realizzazione dell'album deve aver fruttato un po' di milioncini agli U2) che ora sembra ritorcersi contro la band irlandese. Si è detto che il lancio di Songs of Innocence è il nuovo modello per la discografia degli anni a venire, ma qualcosa sembra non aver funzionato a dovere. Il punto dolente è la violazione della privacy; d'accordo, è un regalo, ma come mai il disco è arrivato su 500 milioni di account insieme agli aggiornamenti? Prima mossa sbagliata: molti l'hanno vissuta come un'invasione della propria sfera privata e infatti Apple ha dovuto fare in modo che Songs of Innocence potesse essere eliminato dagli account - sui quali era stato inserito automaticamente - con un semplice clic. Seconda mossa sbagliata, molti fan duri e puri della band si sono arrabbiati di brutto per essere stati tagliati fuori in quanto non clienti di Apple. Insomma un pasticcio sugli iPhone e gli iPad di milioni di utenti in tutto il mondo. Ora che il cd è uscito anche nei negozi il pubblico e i fan si fanno sentire e su Facebook è montata la protesta, da quelli che hanno dato del «maleducato» a Bono per questa sua intrusione, a coloro che accusano gli U2 di essersi venduti e snaturati. Insomma, «se il prodotto è gratuito, chi lo produce è il prodotto» .

Bono, da vecchio rocker scafato, ha subito chiesto scusa via Facebook scrivendo: «Oops, mi dispiace tanto», spiegando poi schiettamente: «Avevo avuto questa bellissima idea. Gli artisti sono inclini a queste cose, c'è un po' di megalomania, un tocco di generosità, un pizzico di autopromozione e la paura che le canzoni alle quali abbiamo dedicato la vita negli ultimi anni non siano ascoltate». Come, gli U2, che hanno venduto più di 250 milioni di album, hanno paura di fare flop?. Il loro rock rischia di passare in secondo piano rispetto al prodotto, o di rimanere schiacciato dal marchio? Secondo gli esperti chiamati in causa da Billboard si vedrà solo con il prossimo album, che è gia in fieri e s'intitolerà Songs of Experience. Però anche i numeri d i questo cd si possono leggere in due modi diametralmente opposti.

I dati definitivi diffusi da Apple a chiusura dell'operazione dicono che 26 milioni di utenti hanno scaricato tutto l'album canzone per canzone o l'hanno ascoltato attraverso iTunes Radio e Beat Music, mentre 81 milioni di persone hanno ascoltato almeno un brano del disco. Numeri da brivido, ma meno del 20 per cento dei 500 milioni di ascoltatori a cui ci si rivolgeva. E allora? Come la mettiamo? Intanto comunque nella classifica di iTunes sono al terzo posto assoluto. Non si può negare che il rock'n'roll sia un concentrato di creatività e commercio, quindi è normale che l'artista entri in gioco per vendere. L'ha ribadito Bono ospite di Fabio Fazio affermando: «Da quando abbiamo cominciato a suonare il nostro desiderio è sempre stato uno: far arrivare la nostra musica al maggior numero di persone possibile». Lui e The Edge (ma anche Adam Clayron e Larry Mullen) confermano di venire dal punk e di voler aggredire ancora i luoghi comuni. Questa volta attraverso la tecnologia perchè i tempi cambiano ma non lo spirito del rock. «Crescere a Dublino negli anni Settanta ci ha insegnato a essere pronti alle risse - sottolineava Bono da Fazio -; del resto ci siamo abituati perché nella loro carriera gli U2 hanno sempre scatenato reazioni opposte, la gente o ci ama o ci odia».

 

Su Facebook la star risponde all'accusa di aver regalato il nuovo disco con mezzi contrari alla privacy: "Avevo paura che nessuno avrebbe ascoltato le canzoni"

Morelenbaum torna ai classici «Ecco il mio tributo a Jobim»

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È un grande e poliedrico violoncellista ma anche un compositore, arrangiatore, direttore d'orchestra, pianista e all'occorrenza percussionista... Il brasiliano Jacques Morelenbaum festeggia quarant'anni di attività ed esplorazioni musicali con il suo primo disco solista (dal titolo Saudade de futuro futuro de saudade ) e con un recital - domani mattina alle 11 - al Teatro Manzoni di Milano per inaugurare la stagione di «Aperitivo in concerto». «Sono partito nel 1974 con l'album A barca do sol, che era un trio cui mi sono aggiunto, prodotto da Egberto Gismonti, le cui canzoni hanno battezzato anche i miei primi concerti a Rio De Janeiro. Poi nella mia carriera ho partecipato, a diverso titolo, a oltre 700 album ed ora è giunto il momento di fare un passo da solista, sempre accompagnato dal Cello Samba Trio in cui canta mia moglie Paula».

Morelenbaum, lontano anni luce dalle logiche commerciali, non porta a Milano i suoi nuovi brani, ma un tributo al suo amico Antonio Carlos Jobim, padre della bossa nova con cui ha collaborato a lungo come musicista e come arrangiatore. «Ho suonato su questo palco nel 2005, ma ora mi sembra naturale proporre un programma completamente differente dal solito rendendo omaggio a Jobim nel ventennale della sua scomparsa. Abbiamo lavorato sempre insieme negli ultimi dieci anni della sua vita. Lui si era preso una lunga pausa di riflessione dopo la morte di Vinicius de Moraes, e quando è tornato alla musica ha formato un gruppo con tutti i suoi parenti, cui ci siamo uniti io e Paula. Suonavamo insieme sette notti su sette, radunati attorno al suo pianoforte, per questo conosco così profondamente la sua opera». Desafinado , la celeberrima Garõta de Ipanema e tanti altri successi rivivranno in versione colta ma senza perdere la loro schiettezza popolare. Se gli chiedete quali sono i brani migliori di Jobim reagisce diplomaticamente: «Tutti, ma in particolare quelli che interpreto in questo concerto. È difficile paragonare l'una alle altre le perle di Jobim; sarebbe come voler stabilire se è meglio Jobim o Villa Lobos». Una nuova prospettiva da cui valutare l'opera di Jobim, perché «spaziando da Villa Lobos a Ryuichi Sakamoto ho imparato a contaminare i generi e gli stili senza perdere il sapore delle radici della musica brasiliana. Mio padre era violinista e direttore d'orchestra e ho imparato molto da lui; tra i miei artisti di riferimento ci sono Pablo Casals e Rostropovich, in gioventù ho lavorato nell'orchestra di Leonard Bernstein, tutto questo mi aiuta ad abbattere le barriere e a lavorare, nel tempo, con artisti come i Tropicalisti, Caetano Veloso o David Byrne, genio del rock. Non ho mai voluto essere un violoncellista in un'orchestra, mi sono sempre interessato a tutti gli aspetti della musica, a comporre, dirigere, anche ad ascoltare. Forse sarò un po' megalomane».

Comunque si è avvicinato a tutti i generi musicali, e tiene particolarmente alla sua collaborazione con Sakamoto. «Sakamoto è un grande personaggio e la sua musica così romantica da lasciare ampio spazio all'improvvisazione. Amo le sue colonne sonore. Ci siamo conosciuti a New York grazie a Veloso». Però non dimentica i suoi innumerevoli compagni di strada: «Tutti gli artisti con cui ho suonato mi hanno dato qualcosa, da Milton Nascimento a Sting, da Mitslav Rostropovich a Bill Frisell passando per Cesaria Evora».

Morelenbaum vede il futuro politico del Brasile un po' confuso ma sulla situazione rosea della musica non ha dubbi: «La musica è costantemente in evoluzione; non c'è un movimento come il Tropicalismo o il rock'n'roll e c'è tanta musica spazzatura ma ci sono anche tanti giovani talenti che meritano di essere conosciuti a livello internazionale, come Hamilton de Holanda, Yamandu Costa, Tono, il gruppo Terra Seca». Nel futuro di Morelenbaum e di Paula, come al solito, tanti progetti. «Ho già pronti 5 album miei, sto finendo gli arrangiamenti per il secondo disco col pianista cubano Omar Sosa, e andrò a registrarne un altro in Giappone con il chitarrista e compositore Goro Ito».

Il violoncellista domani al Manzoni di Milano con un repertorio di capolavori della bossa nova

Morto Jack Bruce, storico bassista dei Cream

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Personaggio discreto quanto bassista vulcanico ed eclettico. Così ci piace ricordare Jack Bruce, glorioso perno ritmico dei Cream a fianco di Eric Clapton e Ginger Baker, scomparso ieri a 71 anni. Con il primo e più celebre supergruppo della storia trascorse due anni (1966-1968) reinventando il blues, ridefinendo la psichedelia e anticipando l'hard rock. Dei Cream Bruce era anche la voce e l'autore di brani indimenticabili come Sunshine of Your Love , White Room e la sperimentale I Feel Free .

Con il suo stile ha influenzato generazioni di bassisti, e anche Sting ricorda ancora oggi i suoi insegnamenti. Bruce, che aveva studiato violoncello e composizione, si spostò presto sui territori del blues entrando nella pionieristica fucina di talenti di Alexis Korner, che fondeva il blues e il jazz con artisti come Graham Bond e Ginger Baker. Si fece subito largo nella scena inglese entrando nella Graham Bond Organisation (in quella band c'era anche John McLaughlin) e poi nei Bluesbreakers di John Mayall e nei Manfred Man, come dire la crema della nuova scena musicale inglese. L'esperienza coi Cream lo ha portato a vendere, in poco più di due anni e mezzo, 35 milioni di dischi e a conquistare il primo disco di platino con Wheels of Fire. Riascoltando, ancora oggi, i loro dischi, se ne percepisce la potenza e l'attualità, non scalfita dal passare del tempo, e la voglia di tre supervirtuosi di creare un collettivo per far deflagrare blues degli anni '20 come Rollin' and Tumblin'. Dopo lo scioglimento dei Cream ci vorrebbe un intero libro per raccontare le mille collaborazioni di Jack Bruce, il suo modo libero e creativo di concepire la musica, la voglia di anticipare le suggestioni del jazz rock e il suo piglio nell'affrontare l'avanguardia. Ha pubblicato dischi interessanti come Songs From a Tailor , suonato ai confini del jazz con i Lifetime di Tony Williams , è tornato al rock duro con gli ex Mountain Leslie West e Corky Laing, ha lavorato con John McLaughlin e Billy Cobham. Anche nei periodi in cui era logorato dalla droga, trovò sempre la forza per creare nuovi incontri sonori. Piace ricordarlo nel 2005, già minato da un tumore al fegato, nella storica riunione dei Cream alla Royal Albert Hall; quattro serate (poi replicate al Madison Square Garden di New York) in cui il trio ha ricreato la magia dell'epoca con un successo incredibile di pubblico e critica.

Sul palco 50 anni di storia della «Mata Hari» del rock

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I segni del tempo sono pesanti ma nemmeno troppo sul fisico di una donna (68 anni) che ne ha passate di tutti i colori - dalle provocazioni all'abuso di droghe varie - e che è stata un'icona della trasgressione nel rock sin dagli anni Sessanta. Parliamo di Marianne Faithfull, definita per la sua vita sregolata la Mata Hari del rock, le cui avventure sentimentali e giudiziarie hanno spesso messo in ombra le sue doti di cantante ed artista a tutto tondo. Superati momenti difficilissimi (come le disintossicazioni da marijuana, cocaina ed eroina) la Faithfull è sempre stata al passo con i tempi. Da simbolo degli anni Sessanta e Settanta ha saputo trovare una credibilità artistica che la porta ancora oggi ad incidere dischi come Horses and High Heeels (uscito nel 2011 e molto apprezzato da pubblico e critica) ed il nuovo Give My Love to London (amore eterno per la sua città) che vanta collaborazioni illustri con Nick Cave, Roger Waters dei Pink Floyd, Brian Eno, il fuorilegge del country Steve Earle. È ancora molto amata nell'ambiente e i nomi che la accompagnano sono lì a dimostrarlo, così come i suoi concerti, seguitissimi da un pubblico fedele.

Domani ad esempio i fan italiani avranno l'occasione di seguire il suo unico concerto dalle nostre parti all'Auditorium, ed è un'esperienza da non perdere in bilico tra storia, attualità e cronaca. La Faithfull, con la sua voce (quasi) da mezzosoprano, è in grado di emozionare e di colorare le canzoni con il suo «vissuto», chi non l'ha preso molto sul serio negli anni ha imparato a ricredersi. Figlia di un militare e di una erede dei Sacher-Masoch, divenne subito celebre nella Swingin' London per la sua avvenenza e la sua spregiudicatezza. Scoperta in un piccolo folk club inglese, entrò presto nel giro grosso e divenne l'inseparabile fidanzata di Mick Jagger (anche se la leggenda vuole che «abbia voluto provarli tutti prima di decidere»), Durante la storica irruzione della polizia nella casa di campagna di Keith Richards, alla ricerca di droga, la Faithfull (ma al processo e dai giornali venne sempre chiamata «Miss X») fu trovata in stato confusionale e vestita soltanto di una stola di pelliccia (e i maligni dicono anche con una barretta di Mars infilata proprio là). Recentemente a scioccato ancora il pubblico dichiarando che Jim Morrison è stato ucciso dall'eroina fornitagli dal suo allora fidanzato Jean de Breiteuil.

Con Mick Jagger e Keith Richards contribuì alla nascita di brani entrati nella leggenda come As Tears Go By (dopo lunga battaglia legale Marianne è oggi a pieno titolo coautrice del brano)il suo primo disco per una casa discografica importante, e Sister Morphine ma anche pezzi come Yo u Can't Al ways Get What You Want pare siano stati ispirato dalla sua personalità. Tra i suoi successi degli anni Sessanta si ricordano canzoni come This Little Bird , Summer Nights , Come and Stay With Me. Rivederla domani sera, nel pieno della sua forma creativa e libera dai fantasmi del passato, sarà un'esperienza da non dimenticare.

Marianne Faithfull domani in concerto presenta il nuovo album Legata da sempre ai Rolling Stones, è stata un simbolo degli anni '60

Orologi rotti e 6 milioni di mosche Così è nato un mondo di «Paura»

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Il bimbo ha 4 anni ed entra a teatro - coi genitori - per vedere l' Amleto di Shakespeare. Quando appare il fantasma del padre di Amleto caccia un urlo terrificante, ha la bava alla bocca... Per un bimbo normale sarebbe finito tutto lì, con qualche incubo e qualche pipì a letto, ma non per Dario Argento che scrive nella sua autobiografia Paura (Einaudi, 349 pagg, 19,50 euro) : «Da allora non fui più lo stesso. Quel giorno sono nate tante fascinazioni. Nessuno lo sapeva, neppure io ne ero cosciente, ma un seme era stato gettato». Il seme del genio dell'horror nasce proprio in quei giorni, tra lo studio fotografico dei nonni, dove si aggirano personaggi come Sophia Loren e Fellini, e la vorace lettura di libri che spaziano da Ai confini della realtà a Il piacere di D'Annunzio e Le mille e una notte , attraverso cui scopre il piacere della masturbazione. Da adulto quel divorare libri e film, quella scoperta dei racconti di Poe, dove tra persone sepolte vive, cadaveri e misteri «si sente finalmente se stesso», quella visione di Biancaneve che lo fa tifare istintivamente per la strega cattiva, quel macinare Hitchcock saranno la base per la costruzione della sua visione gotica del cinema. Tutto si muove quando incontra Sergio Leone e il giovane Bernardo Bertolucci, e tutti e tre lavorano alla sceneggiatura di C'era una volta il West. Tutti i giorni si incontrano per buttare giù la trama e anche i momenti di impasse vengono superati nei modi più strani. Una volta che la storia non procede, Leone si alza e dice: «Vado in bagno». Rientra dopo un tempo interminabile con un sorriso di trionfo spiegando la scena e dice: «La gente sottovaluta l'importanza che ha andare di corpo».

Anche l'Argento regista fa fatica a decollare; dapprima i produttori vogliono affidare il suo Uccello dalle piume di cristallo a un regista noto e possibilmente straniero, poi ci sono problemi di censura e alla fine, il 19 febbraio 1970, quando il film esce in anteprima a Milano e Torino, vietato ai minori di 14 anni, è un flop incredibile. Dario e il padre corrono a Firenze, terrorizzati, per vedere la reazione del pubblico e lì è il trionfo, con gente che strilla di paura, salta sulla sedia e alla fine scoppia in un fragoroso applauso. Il film entra in breve nella top five di Variety e Argento diventa un maestro dell'horror . «Io non credo al soprannaturale - scrive Argento - mi affascina come fenomeno culturale, nella fase preparatoria di Suspiria ho studiato tutti i testi esoterici più famosi ma credo nelle coincidenze, negli intrecci del destino». Però, proprio durante la lavorazione di Suspiria, ricorda una lunga catena di fatti inspiegabili: orologi da polso bloccati di colpo, macchine da presa inceppate, pellicole che, dopo un giorno di «girato», rimanevano bianche... Argento voleva che le sue scene shoccanti fossero il più reali possibile, così in Phenomena riuscì a procurarsi sei milioni di larve di mosca chiudendole in un capannone («Osservavo incantato quelle nuvole che si sollevavano al mio passaggio»). Governare gli insetti però era impossibile quindi furono costruite delle microcinture di nylon che, senza ferirle, muovessero le mosche come fossero aquiloni.

Argento racconta aneddoti gustosi sui suoi film ma non dimentica la sua vicenda personale le crisi, il tentativo di suicidio, i sogni (avere i Pink Floyd o i Deep Purple per la colonna sonora di Pro fondo rosso) persino le ossessioni da cui nacque Opera , «in assoluto il film più faticoso e cupo che abbia mai diretto, e insieme il più costoso».

Una vita tra cinema e tv Buzzanca al Manzoni si racconta a Porro

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Obiettivo cultura. O meglio recuperare e ampliare la tradizione del Teatro Manzoni che con un cartellone importante e con rassegne raffinate come Aperitivo in concerto (le domeniche mattina dedicate al grande jazz internazionale e dintorni) si propone come uno dei salotti culturali milanesi.

Dal 10 novembre, un lunedì sera al mese, nasce la rassegna Manzoni cultura, ideata da Edoardo Sylos Labini che ne cura l'allestimento e la regia, e condotta da Nicola Porro, anchor man di Raidue con il talk show Virus che ogni giovedì lancia la sfida a Michele Santoro. «Vogliamo proporre una nuova formula - racconta Sylos Labini che, sia come attore sia come responsabile Cultura di Forza Italia si dà da fare per aprire nuovi orizzonti nel mondo dello spettacolo e dintorni -, quella dell'intrattenimento culturale e quindi proporremo delle interviste a tutto campo a personaggi famosi nei settori più diversi». Il primo appuntamento, il 10 novembre appunto, sarà con Lando Buzzanca, protagonista di popolari commedie (anche sul filo del sexy soft come Il merlo maschio) e oggi star dell'audience tv con fiction come Il restauratore. Buzzanca risponderà alle domande di Porro raccontando aneddoti e cose curiose sulla sua vita e sulla sua arte. «Sarà un nuovo format, un'intervista teatrale in collaborazione con Rai Scuola - riprende Sylos Labini - con un allestimento teatrale, immagini di repertorio e in scena il dj Antonello Aprea», che tra l'altro è parte integrante degli spettacoli di Sylos Labini dedicati a Gabriele D'Annunzio e a Nerone (in tour nazionale proprio in questi giorni dopo essere partito proprio dal Manzoni).

«Il mio obiettivo è quello di formare un partito della cultura - sostiene ancora Sylos Labini -. La cultura è trasversale ma io e le persone che lavorano con me improntiamo la nostra carriera politica anche e soprattutto su strategie culturali». Così è nato ad esempio Il Giornale Off che sostiene i talenti sommersi, sconosciuti o di cui nessuno parla; così è nata la ricerca di emergenti in tutti i campi che spazian o dalla musica al cinema, dall'arte alla letteratura. «Per aiutare la cultura bisogna facilitare l'intervento di sponsor privati; pensate quanta gente investirebbe in cultura se ci fossero le defiscalizzazioni per queste operazioni. Si aprirebbe un intero mondo». Infatti noi siamo sponsorizzati da Casa Saclà, che offrirà l'aperitivo al pubblico prima dello spettacolo, perché di vero e proprio show si tratta».

Il secondo appuntamento sarà il 15 dicembre e vedrà sul palco il tandem di intellettuali Massimo Fini e Pietrangelo Buttafuoco, ma per le prossime occasioni Edoardo Sylos Labini promette nomi come Carla Fracci, Fedele Confalonieri, Barbara D'Urso e qualche personaggio «politicamente scorretto».

Sylos Labini inventa un nuovo format: un incontro al mese con interviste a nomi prestigiosi della cultura


Lambrusco e Rolling Stones Ora la musica si sposa col cibo

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Musica e cibo? Sono ormai archiviati i tempi in cui Ozzy Osbourne mangiava pipistrelli sul palco e uno sconvolto Syd Barrett cucinava toast con bacon girovagando nei boschi. Adesso il connubio è possibile e la moda sta già spopolando con risultati inaspettati: le note di Tom Waits cedono alle lusinghe del Barolo e Neil Young si sposa con il Montepulciano, solo per citare qualche esempio. Un rapporto, quello tra le note e i piatti, che è sempre esistito: dal «salame» di Battisti al «minestrone» di Giorgio Gaber, passando per il «Cacao meravigliao» di Renzo Arbore. Ma adesso si sbizzarriscono gli esperti del settore per assicurare il massimo piacere dei sensi.

GAST(ROCK)NOMIA

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Se ci pensiamo non ci sono grandi differenze tra un cuoco e un musicista. Entrambi trasformano la materia prima in prodotto finito, vengono da una lunga gavetta e sono a capo di una équipe di collaboratori: il primo di una brigata di cucina e il secondo di una band. Da quando il poeta e cuoco siciliano Archestrato di Gela coniò la parola gastronomia nacquero i primi incroci tra cibo e musica, erano i rave party dell'epoca. Oggi che i cuochi hanno preso d'assalto la tv, la Gast(rock)nomia (titolo di un divertente libro del milanese John N. Mar tin, Arcana, pagg. 191, euro 16) è sempre più di moda così come l'abbinamento dei piatti con Vini e vinili (Maurizio Pratelli, Arcana, pagg. 287, euro 22) . Ai duri e puri del rock piace ricordare Ozzy Osbourne che decapita una colomba (finta?) o che morde sul palco un pipistrello (finto? Ma in quel caso gli fu praticata d'urgenza l'antirabbica), anche se il primato di aver addentato un topo morto - secondo Paolo Villaggio - spetta a Fabrizio De André.

Episodi portati all'estremo... Quanto è raffinato invece il paragone tra Gualtiero Marchesi e il Miles Davis di Bitches Brew. «Non cucino più io, faccio i miei piatti e i ragazzi li devono eseguire come li ho progettati. È logico che eseguendo ci mettano del loro». È l'identico processo creativo che Miles Davis utilizza con i suoi eroi - da Wayne Shorter a Joe Zawinul - cui lascia carta bianca nel creare il suo capolavoro «concentrandosi sui processi di finitura e impiattamento». Anche i Pink Floyd hanno la loro infatuazione culinaria. La leggenda vuole che il Syd Barrett più sconvolto girasse per boschi e parchi cuocendo su un fornello da campo uova bacon e toast. Forse è in suo omaggio che i Pink Floyd, nei concerti di Atom Heart Mother, organizzavano un siparietto con una colazione sul palco, mentre nella copertina del disco era inserita la ricetta di un arrosto servito alle feste dai beduini e di un fritto di cervella di manzo tipico della Franconia tedesca. A proposito di colazione, la Top Ten del «Breakfast Rock» è guidata da Colazione da T iffany di Henry Mancini, seguita da Breakfast In America dei Supertramp e da Breakfast In Bed degli UB 40 , mentre i peggiori dischi da ascoltare mentre si cucina sono Documents of Oppression di Laibach, Tooth and Nail del cantautore ribelle Billy Bragg e Songs of Leonard Cohen . Al di là dei buongustai, la storia del rock è zeppa di eccessi, anche gastronomici. Come raccontò anche a noi il chitarrista Scotty Moore, Elvis morì per eccesso di sandwich, panini che contenevano gli ingredienti più allucinanti che lui mangiava con spasmodica ingordigia. Le brutte storie di alcool si sprecano; da John Bonham, che morì con in corpo due litri di Vodka & Orange a Jaco Pastorius, ucciso a calci e pugni mentre, ubriaco fradicio, cercava di entrare in un locale.

Più sofisticata è invece la ricerca di Pratelli, che unisce un vino ad un disco in Vini e vinili, sottotitolato 33 giri di rosso. Cosa accoppiereste all'ascolto di Let It Bleed, uno dei dischi più frizzanti dei Rolling Stones targato 1969 (l'annus mirabilis di dischi come Tommy dei Who e Ummagumma dei Pink Floyd)? Lasciamoci guidare dall'autore e proviamo le bollicine rosso sangue del Lambrusco (con tappo a corona) Camillo Donati. Johnny Cash e Ezio Trinchero sono due «outlaw», uno nascosto sulle colline astigiane a fare Barbera, l'altro rigenerato (prima della morte) da Rick Rubin con la serie di cd American Recordings. In questi casi possono succedere delle magie; così dalla California le note popolari di Mule Variations di Tom Waits cedono alle nobili lusinghe del Barolo Cappellano sposandosi in una cantina di Serralunga d'Alba...

Nuova moda: trovare il connubio perfetto tra cibo, vino e musica. Sono lontani i tempi in cui Ozzy Osborne mangiava pipistrelli

L'autunno caldo del jazz sulle note di Evans e Lloyd

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Domenica grande giornata per gli appassionati di jazz e dintorni che potranno godersi due concerti importanti, uno alla mattina e l'altro di sera. L' Aperitivo in concerto del Teatro Manzoni, alle 11 del mattino, propone in prima italiana (e unica data italiana) il ritorno del sassofonista e flautista Charles Lloyd mentre alla sera il Memo Restaurant invita il pubblico allo show dell'eclettico sassofonista Bill Evans. Una domenica che anticipa altri due eventi come i concerti al Blue Note di Jack De Johnette (martedì e mercoledì) e di John McLaughlin (giovedì).

Ma torniamo a domenica... Lloyd, che ormai manca da Milano da molti anni, è una leggenda del jazz per la sua storia e le sue collaborazioni. Basti pensare che la sua prima formazione come leader (1965-'66) schierava Keith Jarrett, Jack DeJohnette, Cecil McBee (in alternanza con Ron McClure), una band di grande qualità e altrettanto successo, che lo ha portato a salire sul palco del Fillmore di San Francisco, allora «covo» delle megastar del rock, ed è stato uno dei primi artisti jazz a vendere un milione di copie con un disco ( Forest Flower del '66) . Lloyd ha una formazione musicale a 360 gradi, dato che ha studiato composizone e ha lavorato in blues band come quella di B.B.King e Bobby Bland prima di approdare al gruppo di Cannonball Adderley. Ricostruire la sua lunga carriera richiederebbe un intero libro, dalle collaborazioni con Michel Petrucciani ai numerosi album incisi per la Ecm, ai tanti premi e riconoscimenti alla carriera ricevuti in questi ultimi due anni, in cui la sua creatività è più fervida che mai... Al Manzoni si esibisce con Gerald Clayton al pianoforte, Joe Sanders al contrabbasso, Eric Harland alla batteria, Socratis Sinopoulos alla lyra e al laouto proponendo il recente lavoro Wild Man dance Suite.Polistrumentista ma soprattutto sassofonista tenore e soprano, Bill Evans negli ultimi anni ha mescolato il calore del jazz con l'esuberanza della musica country (Cosa che fece negli anni '70 anche Dave Holland con musicisti come Vassar Clements e Norman Blake) creando un effervescente suono funk, anche definito soulgrass dal titolo di un suo disco. Anche lui viene da esperienze importanti; il suo mentore Dave Liebman lo presenta al «divo» Miles Davis con cui lavora dall'80 all'84 (ha preso parte ad album come We Want Miles e Decoy) e ha lavorato con i personaggi più diversi, da John McLaughlin alla Allman Brothers Band passando per Herbie Hancock.

Alla guida del suo gruppo propone un cocktail jazzato e colorito all'insegna della fusion perché, come sotiene Evans: «la fusion, cioè l'incontro tra vari generi, è ancora il motore che muove la musica. Il jazz è stato creato per inventare sempre qualcosa di nuovo come hanno fatto Miles, i Weather Report o Herbie Hancock, altrimenti finirebbe in un museo». Evans ha anche un rapporto particolare con l'Italia - dove torna spesso - e soprattutto con Milano: «Trovo che Milano sia un luogo ricco di arte e molto stimolante per suonare. Qui si ascoltano molti artisti internazionali ed il pubblico è molto competente.Ho tanti fa a Milano che mi seguono da anni».

Domenica al Memo il grande sax di Bill, pupillo di Miles Davis Per l'Aperitivo del Manzoni il leggendario solista di «Forest Flower»

Porro scopre il Lando Buzzanca sconosciuto

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Edoardo Sylos Labini non è semplicemente un attore; è un personaggio che vive di cultura e per la cultura. Lo dimostrano i suoi spettacoli dedicati a D'Annunzio e (l'ultimo) alla riabilitazione storica di Nerone; lo dimostra il suo Giornale off che sostiene caparbiamente i nuovi e sconosciuti talenti nel campo dell'arte, della musica, del cinema e della letteratura; lo conferma la sua nuova iniziativa Manzonicultura, che parte stasera al Teatro Manzoni di Milano (in collaborazione con Rai Scuola) e vedrà, una volta al mese, un grande personaggio intervistato e messo a nudo da Nico la Porro, vicedirettore de il Giornale e conduttore su Raidue il giovedì del talk show politico Virus. Stasera sotto ai riflettori ci sarà Lando Buzzanca, a lungo considerato artista di serie B per le sue commedie all'italiana e oggi rivalutato in ruoli drammatici dalla televisione dal successo di fiction come Il restauratore. «Porro ci aiuterà a scoprire il vero Buzzanca - dice Sylos Labini -, un artista se mpre fuori dal coro e politicamente scorretto. Questo è lo scopo degli appuntamenti di Manzonicultura, un format che presto esporterò nei teatri di tutta Italia». Sylos Labini, che è anche responsabile Cultura di Forza Italia, ha in mente una strategia ben precisa: «Voglio creare il Partito della Cultura e lottare per un nuovo Umanesi mo culturale contro l'ignoranza e il pregiudizio. Per questo gli appuntamenti del Manzoni sono importanti. Voglio che il teatro torni ad essere un luogo di aggregazione - non come la rete che divide - rompendo gli steccati e far tornare a tutti l'arte e la cultura di cui si sono appropriati un manipolo di intellettuali rivivendola a modo loro».

Anche lo spettacolo Nerone, duemila anni di calunnie ( tratto da un testo di Massimo Fini) si basa su questo principio: «Nerone è il tipico personaggio di cui i maestri della veritas fanno passare bugie per verità e il male per il bene e viceversa».

Il prossimo incontro con il pubblico sarà il 15 dicembre con Massimo Fini; poi seguiranno personaggi come Carla Fracci, Fedele Confalonieri e Barbara D'Urso. Sul palco le musiche del dj Antonello Aprea.

Parte stasera Manzonicultura, il nuovo format di Sylos Labini

"Lo dico a “Vivavoce”: fare politica vuol dire far bene il mio lavoro"

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Francesco De Gregori come non l'avete mai sentito. Certo, in concerto è abituato - per indole artistica e in omaggio a Bob Dylan - a rinnovare ogni volta le sue canzoni e a far respirare loro nuove atmosfere, ma per la prima volta lo fa su disco in Vivavoce, il doppio album in uscita oggi che il cantautore «ha in mente da una vita» e che raccoglie 28 tra i suoi brani più famosi (o comunque quelli da lui più amati) completamente rivoluzionati negli arrangiamenti. Per farvi capire c'è Alice eseguita a due chitarre e due voci con Ligabue, La donna cannone con gli archi diretti da Nicola Piovani, la cover di The Future di Leonard Cohen, la meno nota Un guanto... E Santa Lucia che contiene un inserto di Come è profondo il mare di Lucio Dalla.

Perché questo disco? E perché proprio adesso?

«Volevo raccontare come vivo oggi la musica che ho fatto nell'arco di quarant'anni, come si è evoluta. Perché farlo adesso? Facevo troppi concerti, ho dovuto smettere per un po' ma non volevo appendere la chitarra al chiodo».

Come sono nate queste nuove versioni?

«Sono venute spontaneamente, in studio. Uno di noi prendeva in mano uno strumento e cominciava a suonare, a seconda dell'atmosfera veniva fuori un brano acustico con il dobro o un pezzo elettrico con l'organo Hammond. È nato tutto così».

E il duetto con Ligabue?

«Ci siamo conosciuti una quindicina di anni fa. Stavo cenando con amici e parenti prima di un concerto e lui a un certo punto arriva e mi abbraccia. Per i miei figli sono diventato un dio. Da allora siamo rimasti spesso in contatto e la sua voce mi è sembrata particolarmente adatta per rifare questo brano che ha richiesto molto coraggio».

Cioè?

«L'ho scritto chiuso in una stanza, da vero cantautore solitario ed è ottimo nella versione originale. Dal vivo è più facile cambiare l'arrangiamento di un pezzo, finito il concerto non rimane nulla, ma su disco è impegnativo».

A proposito di concerti, adesso è in tournée in Europa, come si trova?

«Bene, come quando sono davanti ad un pubblico. Avrei dovuto cominciare 15 anni fa, ma oggi la musica viaggia molto più veloce grazie alla rete. Ho appena suonato a Stoccarda, dove c'erano molti italiani... Lì quando suono Viva l'Italia ha un altro sapore, c'è più colore».

In Santa Lucia c'è una citazione di Lucio Dalla.

«Per me è inevitabile ricordare il Dalla artista. Come è profondo il mare è un o dei suoi brani più drammatici e profondi. Abbiamo suonato insieme nel '79 e nel 2010 e ciò che mi addolora è che non potremo rifarlo più».

Nel cd ci sono Viva l'Italia e La storia una dietro l'altra.

«È una casualità. La prima è una canzone d'amore per l'Italia scritta nel '79 ma che sfugge a una datazione precisa. La storia nasce come un invito a partecipare alle cose del mondo, a non rinchiudersi in una stanza tanto poi le cose ti raggiungono ugualmente».

De Gregori e la politica quindi.

«Per me fare politica vuol dire fare bene il mio lavoro. La politica è una cosa talmente alta che non può essere banalizzata in quattro chiacchiere. Ho le mie idee ma non ho intenzione di parlarne qui».

Ma almeno del nostro futuro cosa pensa?

«Il futuro spero sia migliore. Se tutti si rendono conto che il futuro è fatto di diritti e doveri le cose potrebbero andare bene».

E di Dylan e Cohen che continuano a suonare e a incidere a 73 e 80 anni?

«Continuano per amore della musica. Dylan soprattutto continua a stravolgere la sua musica, in questo periodo è tornato al blues, suonando non solo i suoi brani ma anche quelli di bluesman storici. Del resto è un artista libero sin da quando aveva vent'anni».

Lei ha detto che i rapper sono i nuovi cantautori.

«Non proprio. È vero che i rapper danno molta importanza alla parola, ma la storia non si ripete e i cantautori erano molto più acculturati e scrivevano per un pubblico acculturato».

Ha nuovi progetti?

«Ho in mente tante cose, per esempio la traduzione in musica di alcuni brani di Dylan, che più passa il tempo più rimane il mio guru».

Esce oggi il doppio album con 28 classici riarrangiati. C'è una cover di Leonard Cohen e in Alice duetta con Ligabue

Arbore, "musicante" che per amore del jazz non ha fatto il dentista

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«Mio padre aveva uno studio dentistico molto avviato e da piccolo, per invogliarmi a seguire la sua strada, mi faceva assistere alle estrazioni dei denti». Ecco perché il nuovo doppio album di Renzo Arbore s'intitola ...e pensare che dovevo fare il dentista... e sulla copertina spicca la sua foto in camice bianco in mezzo a trapani e attrezzi chirurgici vari. È un viaggio nel mondo artistico di Arbore diviso tra le sue storiche collaborazioni ( Renzo Arbore and Friends) e i suoi giri del mondo come ambasciatore della napoletanità in jazz con l'Orchestra Italiana ( In Concert). «Avrei potuto intitolarlo pomposamente Best of o qualcosa del genere, ma ho preferito dare al disco quel tono un po' scanzonato che mi contraddistingue. Ho rivisto questa collezione di medaglie e ho voluto regalarle al pubblico...C'è I Can't Give You Anything Bu t Love in duo con Lucio Dalla, con cui ho condiviso l'amore per il jazz antico; c'è Pigl iate 'na pastiglia con Carosone, il precursore italiano di questo mix di generi e stili; c'è Un cornetto e un cachet, con Nicky Nicolai e Dado Moroni, che è un omaggio al maestro dello swing Lelio Luttazzi ed altri duetti con Rossana Casale o le Boop Sisters fino ad arrivare a 'O sole mio, trasformata in un vero inno soul, al Madison Square Garden di New York, dall'impagabile Ray Charles». Insomma nei due dischi ci sono tutte le passioni e le emozioni di Arbore, il suo amore per il jazz e per la vera canzone popolare napoletana «che è autentica poesia». Infatti il secondo album «è un simbolico concerto che ripercorre la mia storia dal '93 a oggi perché, voglio ricordarlo, l'Orchestra Italiana era nata per durare due o tre anni invece porta ancora oggi la nostra musica in giro per il mondo, dagli Stai Uniti alla Cina».

Accanto alla struggente Ammore scombinato («che eseguo in versione da crooner») e a Blue Christmas («la canzone sul Natale più triste che ci sia») c'è anche l'omaggio all'opera Nessun dorma («perché mio padre era anche un grande melomane e perché dobbiamo ringraziare i tenori che diffondono la cultura e la lingua italiana nel mondo») c'è una versione italianizzata di Portorico, scritta da un ex mozzo di nave e trasformata, con la sua autorizzazione, in Cocorito. Ce n'è per tutti i gusti, mancano solo (e da un po' di tempo) brani nuovi di Arbore, ma se glielo si fa notare lui ne viene fuori brillantemente con la sua aria sorniona e contrattacca dicendo. «Io ho inventato le sigle tematiche, le sigle manifesto come Ma la notte no, Il materasso e La vita è tutta un quiz, che è un brano contro la dittatura dell'Auditel. Tutti badano troppo agli ascolti, per questo si fanno programmi mediocri. Sullo stesso tema è Meno siamo meglio stiamo, che ho scritto con Greg di Lillo e Greg». Una stoccata alla televisione, che oramai non frequenta più, perlomeno quella generalista, perché il suo nuovo progetto è una web tv. In realtà RenzoArbore Channel Tv è già attiva, ma presto partirà alla grande. «La mia prossima malefatta sarà far conoscere ai ragazzi i grandi artisti del passato in tv sul web, perché non si può suonare il rock senza conoscere il giro armonico del blues. Passerò filmati di personaggi come Tony Bennett, un grandissimo crooner che ebbe la sfortuna di avere davanti a sé Frank Sinatra, cui venivano affidate le canzoni più belle. Io e Bennett siamo molto amici e abbiamo cantato insieme a Brooklyn. Ho la registrazione. A Umbria jazz, in un piccolo locale, gli feci scoprire Diana Krall, con cui poi duettò». Nel libro dei ricordi di Arbore c'è spazio per una moltitudine di aneddoti e ricordi, dai concerti con il «pontefice del soul» Solomon Burke alla volta che scoprì Michel Bublé: «mi dissero, vieni a presentare questo ragazzo di origine italiana; aveva un eccezionale talento per lo swing».

Ma chi è oggi Renzo Arbore? «Sul mio biglietto da visita c'è scritto “clarinettista jazz”, ma sono uno strapazzatore di strumenti musicali. In realtà le note devono essere espressive, per esprimere la malinconia o l'allegria ci vuole espressività. Questo è l'insegnamento che mi ha dato Roberto Murolo. Con questo spirito eseguo Reginella in suo ricordo. Per il resto sono un musicant e, come quelli che accompagnavano gli emigranti, e per i ritmi esotici mi sono ispirato a Carosone».

L'artista pubblica un doppio cd che spazia dai duetti con Dalla ai concerti della sua band

Foo Fighters a tutta birra sulle autostrade del rock

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Wasted Light ha fatto il botto. È volato in vetta alle classifiche di mezzo mondo e ha conquistato quattro Grammy. I Foo Fighters di Dave Grohl con quell'album hanno portato il rock alternativo ad un pubblico enorme senza snaturare il loro suono. Non sono una band comune i Foo Fighters, non potrebbero esserlo guidati da Grohl, ex batterista dei Nirvana (passato alla chitarra) sempre in cerca di nuove emozioni. L'anno scorso per esempio ha girato il film Sound City (vi ha preso parte anche Paul McCartney) per raccontare la vita in uno studio di registrazione di Los Angeles. Ora il suo nuovo progetto - alla vigilia del ventesimo anniversario dei Foo Fighters - è molto ambizioso e affascinante. Si chiama Sonic Highways ed è un disco-viaggio in otto città americane per raccontarne la storia musicale, corredato da una serie tv in otto episodi (in onda da noi al mercoledì su Sky Arte) con interviste ai personaggi più significativi della scena locale. «Si sente subito che questo è un album dei Foo Fighters - spiega Grohl - ma dentro c'è qualcosa di più profondo. Queste città e queste persone ci hanno portato ad allargare la visuale ed esplorare nuovi territori musicali, senza però farci perdere il nostro sound».

Un progetto impegnativo e sontuoso (Grohl ha investito parecchi soldi) nato nella mente dell'artista già prima dell'incisione di Wasted Light. Sonic Highways è un disco on the road... La band ha visitato otto città scrivendo un brano per ciascuna di esse e cercando di raccontarne l'eredità musicale. «Ho intervistato dei personaggi fantastici - ricorda Grohl - nessuno si è tirato indietro. Persino Obama che è un grande appassionato di rock. Quel giorno ha fatto un discorso sulla guerra, ha dato una medaglia a un eroe dell'Iraq e io mi sono detto: figurati se ora si mette a parlare con me di Stevie Wonder. Invece il colloquio, che doveva durare 15 minuti, è andato avanti per tre quarti d'ora. L'intervista più emozionante è stata quella a Norah Guthrie, la figlia del grande Woody, ha un'energia contagiosa, ma è stato emozionante incontrare anche Willie Nelson, Dolly Parton, Roky Erickson».

Dal re dei «fuorilegge» country Willie Nelson al rock psichedelico dei 13th Floor Elevator di Erickson c'è un abisso; quell'abisso che i Foo Fighters colmano col loro suono ruvido e tonitruante che fa da collante ideologico al progetto che, con la dura Subterranean, fa tappa a Seattle, dove le leggende locali sono Jimi Hendrix, i Pearl Jam e (guarda caso) i Nirvana. «È stata una scelta molto personale - ricorda Grohl - perché in questi studi i Nirvana hanno inciso il loro ultimo album e i Foo Fighters hanno registrato il loro primo cd». Si va poi a Chicago, capitale del blues elettrico dove Buddy Guy (grande vate blues presente nel film) fa da maestro a Tom Morello, per inventare Something From Nothing. C'è poi Washington, la Capitale con i suoi monumenti scintillanti e con i suoi sobborghi diseredati in cui la band - che qui ama in particolare i Bad Brains e Henry Rollins - confeziona The Feast and the Famine. Nashville è la città del country ma i Foo Fighters non si lasciano ammorbidire (d'altra parte qui i loro idoli sono l'adottivo Jack White e gli esplosivi Kings of Leon) e costruiscono la variegata Congregation. Un vero viaggio musicale non può prescindere da New Orleans; la band è approdata quindi alla prestigiosa Preservation Hall, con in testa le note della tromba di Louis Armstrong e del pianoforte di Dr.John tagliate con i nuovi suoni di Lil Wayne. Da questo inedito connubio è nato il cocktail di rock condito con trombone, tuba, sax e clarinetto della Preservation Hall Jazz Band di In the Clear. In What Did I Do? God As My Witness c'è l'anima texana di Austin, dove la band sposa il country di Willie Nelson con la psichedelia. A New York Grohl trova «il suo piccolo universo di musica» spaziando dai Velvet Underground agli Yeah Yeah Yeahs, reinventandolo in I Am a River. L'intrigante e movimentato viaggio termina a Los Angeles, tra il deserto di Joshua Tree e rimembranze dei Guns N'Roses e dei Beach Boys, con la vibrante Outside. Il disco sarà pubblicato anche in versione LP, con otto copertine che rappresentano le varie città del percorso armonico.

Esce l'album con otto brani dedicati ad altrettante capitali del suono americano. Arriva anche la serie tv on the road in onda su Sky Arte


"L'elettronica non invecchia. E il buddhismo fa rinascere"

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Giovedì ha concluso a Udine la tournée legata alle sue ultime sperimentazioni. Un ritorno al passato, agli anni Settanta, quando era un pioniere dell'elettronica pronto a stupire con suoni spiazzanti e audaci. È la tournée dell'album Joe Patti's Experimental Group (fatto con il suo ingegnere del suono Pino «Pinaxa» Pischetola, con lui sin dai tempi di Gommalacca ) e Franco Battiato ci racconta le origini del progetto.

«Fondamentalmente il disco e il giro di concerti sono stati un divertimento. Seguo sempre il principio di suonare la musica che mi piace senza farmi influenzare dalle mode né dal gusto del pubblico. Tutto è nato quando due ragazzi mi hanno fatto ascoltare due nuovi dischi di musica elettronica; in realtà erano tutte improvvisazioni. Ho sentito subito che quei suoni non invecchiano, non si possono datare e si prestano a molteplici esperimenti sonori. Gli altri generi se li ascolti dopo vent'anni appaiono datati, ma l'elettronica è sempre attuale. Così ho voluto dare un presente al passato». Un Battiato eclettico artisticamente quanto legato al buddhismo, alle dottrine orientali e attento alla sua spiritualità... Tanto da pubblicare in questi giorni il libro e dvd Att raversando il Bardo. Sguardi sull'aldilà in cui, attraverso interviste a monaci, preti, psichiatri, fisici quantistici, viaggiatori astrali, spiega cosa avviene dopo la morte, o meglio che cos'è e cosa non è la morte.

«Il senso della nostra esistenza terrena - dice Battiato - è quello di crescere, diventare esseri completi, e ritornare all'unità». Un concetto assimilabile a quello del Cristianesimo. «In questa visione si uniscono due mondi, est e ovest, mistici e scienziati e persino viaggiatori astrali; viaggi astrali ne facciamo tutti ma non siamo in grado di accorgercene. Molti cristiani in fondo la pensano come i buddhisti e viceversa». Le differenze con il Cristianesimo però sono chiare e nette, nella visione di Battiato. «Mi dispiace che la chiesa tradizionale non voglia tenere in debito conto alcuni fenomeni. Come le esperienze di San Giovanni della Croce o quelle di Santa Teresa D'Avila che levitava. La fede non significa niente, bisogna avere esperienza diretta delle cose. Io ho avuto molte esperienze mistiche sin dagli anni Settanta ma non le racconto perché la gente non è preparata. Si ha paura della morte, ma in realtà con la morte ci si libera. Tutti siamo prigionieri di abitudini, paure, illusioni. Le sofferenze dovrebbero indurci ad abbandonare l'ego, che chiude la strada del ritorno alla nostra natura divina. Ho scritto anche parecchie canzoni mistiche. Attraverso la musica si può imparare ad aprire il cuore gli uni agli altri. La musica è un grande conduttore di energia, non dimentichiamo quanti artisti rock, dai Beatles in poi, ma anche precedentemente nel mondo del jazz, sono rimasti affascinati dalle filosofie e dalle religioni orientali. Molti come Santana e John McLaughlin sono anche diventati santoni».

Battiato fa parlare, nel libro e nel dvd, il lama tibetano Geshe Jampa Gelek, il quale dice: «Da tempo immemorabile viviamo, moriamo, rinasciamo ma non ne abbiamo memoria, tranne una piccolissima parte di gente che ricorda le vite passate... Dallo stato intermedio del Bardo, prima del concepimento, gli esseri coscienti scelgono la coppia per entrare di nuovo nell'esistenza della vita terrena di noi esseri senzienti». Temi difficili, o meglio impenetrabili e snobbati dalla nostra civiltà materialista, ma Battiato non si ferma davanti a nulla. In Joe Patti's Experimental Group c'è il brano Omaggio a Giordano Bruno. «Per capire i mondi paralleli e gli scenari che raccontava Giordano Bruno nel '500 abbiamo dovuto aspettare che arrivasse Einstein a illuminarci. Così è per l'aldilà. La morte e la reincarnazione sono fenomeni impossibili da c apire? Solo perché noi siamo esseri inferiori che vivono in una cantina anziché in un Impero». Tra filosofia, religione e trascendenza, Battiato annuncia che sta scrivendo nuove canzoni, ma il suo prossimo progetto è trascorrere un periodo con il monaco novantenne Willigis Jäger (presente nel libro) «amico, fonte di saggezza e di serenità».

Lo studio delle antiche dottrine e un disco con sonorità sperimentali: ecco la seconda giovinezza di Franco Battiato, in libreria con un film e una raccolta di pensieri sull'Aldilà. "Le mode non mi influenzano"

Bono e tante star rifanno Band Aid contro Ebola

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Ebbene sì, ogni tanto il rock mette da parte la trasgressione e l'esibizionismo e si dedica alla filantropia. Una bella canzone e un manipolo di star fanno sempre colpo per aiutare una buona causa. Così, a trent'anni dalla versione originale, una squadra di stelle della musica è andata a ripescare, riarrangiandola e attualizzandola, Do They Know It's Christmas?, l'inno per l'Etiopia lanciato da Bob Geldof con il «Band Aid». Registrata sabato ai Sarm Studio di Londra e presentata domenica durante l' X Factor inglese, Do They Know It's Christmas? è ora in rotazione nelle radio e in vendita in digitale per beneficenza. Questa volta si combatte contro Ebola, che sta dilaniando il continente africano. Non si ferma nel rock lo spirito e la volontà di aiutare gli altri e il supergruppo che partecipa all'iniziativa comprende tra gli altri Bono, Chris Martin dei Coldplay, gli idoli dei teenager One Direction (di cui per la gioia delle ragazzine è uscito oggi il nuovo album Four), Ed Sheeran e Sam Smith (i due inglesini numero uno delle classifiche con le loro ballate soul pop), l'eterna ribelle Sinead O'Connor, Emeli Sandé, Rita Ora, Paloma Faith, Ellie Goulding, Olly Murs, Clean Bandit, Bastille, Jesse Ware, Elbow & Roger Taylor e molti altri. Il video originale della canzone, dalla melodia elegante e senza tempo (tanto che ogni anno a Natale il disco ricomincia a vendere) è visibile su http://youtube/i1jeic-JEsl mentre le donazioni possono essere effettuate sul sito www.bandaid30.com/donate.

Il produttore è Midge Ure, lo stesso che nel 1984 produsse il disco originale con Bob Geldof (per aiutare l'Etiopia) unendo personaggi come Sting, George Michael, Duran Duran, Boy George, vendendo oltre 3 milioni di copie e fatturando 8 milioni di sterline. Il brano fu poi reinciso cinque anni dopo raccogliendo ancora un lusinghiero successo e conquistando la vetta delle classifiche. L'ultima edizione fu quella del ventennale (dedicata alla crisi del Darfur), cui parteciparono anche Bono e Chris Martin.

"L'elettronica mi diverte ma nel cuore ho Ellington"

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È un dandy d'altri tempi, dall'abbigliamento raffinato ed elegante, abito perfetto, cura dei dettagli, sofisticato nei modi e nel parlare. Bryan Ferry è diverso da tutte le altre star del rock, lui è un bon vivant che trasforma anche l'arte in buongusto; nel vestire (frequenta le migliori sartorie londinesi di Savile Row) è un incrocio tra Duke Ellington e Dirk Bogarde (due dei suoi idoli di sempre) e nella sua musica stilosa confluiscono le pulsioni rock futuristiche dei Roxy Music (la meravigliosa fucina di talenti che condivise con Brian Eno, Phil Manzanera ecc), il jazz e la ricerca elettronica. Da sempre è un onnivoro ricercatore di suoni. Nel suo disco The Jazz Age (uscito poco più di due anni fa) ha fatto rivivere i classici dei Roxy Music in versione strumentale, come se uscissero direttamente dagli anni Venti; ora, con il nuovo Avonmore (la via di Londra dove si trova il suo studio di registrazione e la sua abitazione) riprende le sue esplorazioni tra elettronica, pop sofisticato e swing, miscelando ancora sapidamente la storia e l'attualità con brani come Virginia Plain (primo singolo dei Roxy Music e primo clamoroso successo della band), classici di Steven Sondheim come Send In the Clowns, singoli come Loop De Li e Soldier of Fortune scritti e interpretati con Johnny Marr.

Come nasce il nuovo album?

«I miei principi non cambiano. Ci sono molte strade diverse da seguire in campo musicale, amo avere un ampio spettro di stili a cui attingere. Per me è sempre stata un'avventura mettere insieme i più differenti generi, sia nella mia carriera solista che con i Roxy Music».

Come lo definisce?

«Volevo fare un disco da poter eseguire on the road con la mia band. Sostanzialmente Avonmore è un disco che privilegia la forma-canzone , con otto nove brani originali e due cover. Una delle nuove canzoni l'ho scritta con Johnny Marr, che suona in tutto l'album, così come Nile Rodgers. Le due cover sono Send In the Clowns, del grande compositore St ephen Sondheim, e Johnny & Mary di Robert Palmer, nata dalla mia collaborazione con il dj norvegese Todd Terje».

Musicalmente il passato quanto conta per lei?

«Io vivo nel presente ma non posso dimenticare le mie radici, e quando dico radici guardo molto lontano. Sono cresciuto con il jazz, quello di Duke Ellington, Count Basie e Coleman Hawkins e poi, nei primi anni Sessanta, ho assorbito lo spirito del rock. Queste influenze contribuiscono a creare la mia musica che cerca di sfuggire ad ogni definizione».

In The Jazz Age ha rivisitato il repertorio dei Roxy Music in versione strumentale; qunt'è rimasto dei Roxy nel suo stile?

«I Roxy Music sono nel mio Dna. Per il mio nuovo tour ho una band molto versatile con cui eseguo brani che ripercorrono tutta la mia carriera. La band ha portato un sacco di entusiasmo giovanile allo spettacolo e ama suonare i brani dei Roxy Music. Portiamo in giro un repertorio che spazia dal primo album dei Roxy ai nuovi brani. Con la band di Jazz Age avevamo tutto un altro approccio, più sofisticato, alla musica».

Ci sono tanti ospiti nel disco.

«Oltre a Johnny Marr e a Nile Rodgers c'è Marcus Miller al basso col suo tocco jazz e poi c'è Ronnie Spector; l'ho sempre amata perché era parte di quel sound con cui sono cresciuto. Qualche anno fa l'ho incontrata e l'ho registrata mentre cantava One Night Stand, che poi ho completato adesso per inserirla nell'album. Non posso dimenticare la chitarra di Mark Knopfler e Maceo Parker, un mito per me dai tempi in cui suonava con James Brown».

Quanto conta oggi l'elettronica?

«È sempre interessante collaborare con talenti di altri stili, soprattutto del mondo dell'elettronica e della dance. Todd Terje ad esempio mi è stato presentato da mio figlio Isaac e all'inizio abbiamo lavorato sui remix di Love Is the Drug e Don't Stop the Dance. Suonare dal vivo con Todd è stata l'esperienza più entusiasmante dell'anno».

Chi le piace tra i musicisti di oggi?

«Prince e la sua scatenata band femminile; non a caso gli ho prestato lo studio per incidere i suoi nuovi album».

L'ex Roxy Music Brian Ferry, dopo un disco di jazz in cui rilegge il suo passato, pubblica "Avonmore": raccolta di brani tra pop, swing e sperimentazione

L'"operazione nostalgia" da Sinatra a brani dei '60

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Ha ancora voglia di sorprendere il suo pubblico e il 3 febbraio pubblicherà l'album Shadows In the Night cantando classici di Frank Sinatra, brani come What I'll Do del grande Irving Berlin o ancora come Le foglie morte. Sarà un confronto (per qualcuno un affronto) con alcune delle più belle voci della storia della musica. Come se la caverà stavolta Bob Dylan, l'uomo dalla (non) voce ormai rarefatta (eppur così evocativa) da vecchio marinaio sbronzo e sdentato? Lui - come sempre - non bada alle critiche e annuncia: «Da tempo volevo fare un disco come questo, ma non ho mai avuto il coraggio di avvicinarmi ad arrangiamenti complessi per 30 elementi e adattarli per una band di cinque. È stato fatto tutto dal vivo. Con questo album io e la mia band volevamo far conoscere queste canzoni a modo nostro».

Int anto Dylan pubblica in un cofanetto gli storici «nastri della cantina» per la prima volta completi e con inediti. Dylan arrivava dalla leggendaria performance del 1965 al Newport Folk Festival, dove strapazzò la tradizione con le folate elettriche di Like a Rolling Stone; veniva da leggendarie tournée in Usa, Europa e Inghilterra; era all'apice della creatività quando incappò in quel tremendo incidente di moto a New York. Sparì; lo si ritrovò nel 1967, convalescente e isolato dal mondo, chiuso nella cantina di una casa dalle parti di Woodstock. Lì, con un gruppo diventato famoso come The Band, si dedicò a scrivere canzoni e a rileggere la tradizione popolare. Sono quelle canzoni, a lungo avvolte nel mistero, chiamate Basement Tapes («i nastri della cantina») che hanno segnato la storia del rock. Nel 1969 alcune uscirono sul primo bootleg della storia, The Great White Wonder (seguì Kum Back , primo disco pirata dei Beatles), poi nel '75 uscì il doppio album The Basement Tapes (con 16 di quei brani) e, dopo decenni di album pirata, uscirono i 5 cd The Genuine Basement Tapes , di cui Garth Hudson della Band disse: «Li hanno trovati tutti». Sbagliava, anche lui che ha vissuto quell'epopea in prima persona, perché The Basement Tapes Complete, con tutte le incisioni dell'epoca, vengono pubblicate in questi giorni in un cofanetto di sei cd (riassunto nel doppio album The Basement Tapes Raw). Per la prima volta in assoluto vengono pubblicati tutti i nastri «salvabili» di quelle sessions, eseguite nella Sala Rossa di casa Dylan nell'arco di un anno, e recuperate dallo stesso Hudson insieme al produttore Jan Haust, per ridare loro un suono «ascoltabile» ma il più vicino possibile all'originale.

È una versione moderna della Anthology di Harry Smith, la raccolta di brani popolari che fece da Bibbia a Dylan e a tutti i cantautori della sua generazione raccontando loro i blues di Tommy McClennan e il country old time di Uncle Dave Macon. Ci sono le prime versioni di brani mitici come I Shall Be Released , The Mighty Quinn (resa celebre in Italia dai Dik Dik), Nothing Was Delivered (rifatta in versione country rock dai Byrds). Ci sono versioni intere di brani ai tempi inascoltabili o solo accennati come I Can't Make It Alone, che pare un abbozzo di This Wheel's On Fire (definita da Marcus «una delle più considerevoli performance dei nastri in cantina»).

Ci sono gli inediti come Baby Won't You Be My Baby , Sign On the Cross , la versione del gospel Hallelujah I've Just Been Moved . C'è un intero tesoro di cover come Hills of Mexico, nota anche come Buffalo Skinners e lanciata da Pete Seeger. Come ricorda Robbie Robertson, molti erano esperimenti: «Bob provava una vecchia canzone e poi diceva: “Magari da qui si potrebbe cavarne una nuova”». Inutile cercare di imprigionarlo con ulteriori date o informazioni, è un disco che va assaporato perché, come sintetizza lo stesso Robertson: «È interessante ciò che nessuno ricorda, i fatti non sono sempre la cosa più interessante».

L'artista sfida tutti cantando i grandi classici del passato. E pubblica gli attesi "nastri della cantina" con inediti e rarità

La voce con l'anima nera che ha reso sexy il blues

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Era un grande. La sua voce rauca e aggressiva, a tratti brutale, un urlo dell'anima, ha segnato le strade del rock per quarant'anni. Era una voce da «nero» anche se Joe Cocker veniva dall'inglesissima Sheffield. È entrata nella storia la sua immagine, coi capelli lunghi e la maglietta psichedelica, mentre si agita sul palco di Woodstock, suonando un'immaginaria chitarra e agitandosi come un epilettico (probabilmente imbottito come suo solito di alcol e droga) interpretare una inimitabile versione della beatlesiana With a Little Help From My Frie nds. Era giovanissimo e semisconosciuto, faceva l'idraulico, e dopo una lunga gavetta nei più infimi locali di Sheffield divenne subito una leggenda. La sua performance - che comprendeva anche brani come Delta Lady - fu una sensuale esplosione di rock condito con violente scrollate di blues e di soul. Lui era così, e quella di Woodstock è l'immagine di Cocker che i duri e puri del rock hanno nel cuore, anche se poi il successo è tornato, impetuoso, sull'onda delle sofisticate immagini di 9 settimane e mezzo, del 1985, dove cantava l'aggressiva You Can't Leave Your Hat On sulle immagini del voluttuoso strip tease di Kim Basinger.

Sì, Joe Cocker era così, tutto voce ed esuberanza, (rimane impareggiabile l'imitazione che faceva di lui John Belushi) e così se n'è andato a settant'anni, sconfitto nella sua voglia di vivere da un tumore ai polmoni che lo attanagliava da tempo. Se n'è andato in silenzio nel suo ranch di Crawford, Colorado, dove viveva con la famiglia e dove allevava cavalli. Una vita (relativamente) tranquilla per un artista che non voleva mollare la musica. L'annuncio lo ha dato ieri sera il suo agente Barrie Marshall con un laconico comunicato che dice: «Era semplicemente unico e sarà impossibile riempire il vuoto che lascia nei nostri cuori».

La sua versione di With a Little Help From My Friends (che all'epoca creò un sacco di polemiche per i suoi presunti riferimenti all'Lsd e fu incisa con Jimmy Page dei Led Zeppelin alla chitarra) oscurò l'originale dei Beatles e finì persino al numero uno nelle classifiche inglesi. Inglese fino al midollo, Cocker divenne però presto un'icona americana sfondando, già nel 1970, nella hit parade statunitense con brani come Cry Me a River e Feelin' Alright . I suoi fan d'antan ricorderanno le sue donchisciottesche avventure sotto il marchio di Mad Dogs & The Englishmen insieme al carismatico autore (scrisse tra le altre proprio Delta Lady) e polistrumentista Leon Russell e a un gruppo di personaggi fuori dalle righe. Di quell'infuocato 1970 rimane lo storico album Mad Dogs & The Englishmen e anche l'interessante documentario omonimo.

Cocker aveva davanti a sé una carriera inarrestabile ma, come accadde a tante star dell'epoca, aveva il vizio di vivere pericolosamente tra droghe, sbronze colossali e arresti. La salute malferma (anche negli ultimi anni quando parlava tremava sensibilmente) ne frenò la carriera e già nel 1972, dopo un tour mondiale, sarà costretto a fermarsi per qualche anno. Incide dischi come Luxury You Can Afford e Sheffield Steel , dignitosi ma non graffianti come all'epoca d'oro, e torna alla grande grazie al cinema. Prima con la colonna sonora di Ufficiale e gentiluomo, dove in duo con Jennifer Warnes conquista un Grammy e i primi posti delle classifiche con Up Where We Belong, poi si riprende lo scettro da solista con la già citata You Can Leave Your Hat On, che rilancia l'anima soul-blues dei tempi antichi. Da allora Cocker diventa anche una stella universale, amata anche da chi non ne ha condiviso il passato. Recita persino nel film Across the Universe e tra i suoi molti duetti ce n'è uno con Eros Ramazzotti. Ma lui non ha mai abiurato il blues orgiastico dei tempi d'oro, anche se negli ultimi anni era tranquillo, coi suoi cavalli e la Cocker Kind Foundation per aiutare i bambini poveri, il suo motto rimaneva: «Se cominciassi a predicare ciò che si deve o non si deve fare, sparatemi».

La star inglese aveva 70 anni. È morto nel suo ranch in Colorado Con la sua esibizione orgiastica rimane un simbolo di Woodstock

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